Mario
Merlino, professore, scrittore, ma soprattutto militante politico legato alla
storia politica degli ultimi 60 anni della storia dell’Italia. "Ai confini del nero” è il penultimo libro del professor Merlino ed è un libro di racconti.
Secondo la moderatrice Roberta Di Casimirro, registra di Radio Rai1, questo libro del professor Merlino è il più bel libro che lui abbia mai scritto: la piccola storia, la storia degli esseri umani, intorno a cui ha cucito la grande storia, la storia degli eventi.
Il primo racconto è la storia di Agnese, una donna che si
innamora, resta incinta e viene abbandonata. Essa porta a termine la sua
gravidanza, cresce suo figlio in un periodo storico così libertario. Agnese è una donna forte, una donna che
affronta la comunità alla quale essa appartiene, con fierezza, che non vede il
fatto di essere rimasta incinta, di essersi fidata di un uomo come una colpa,
ma affronta la situazione in maniera stoica. Agnese sarà una delle prime
iscritte al Partito Fascista della città d’appartenenza.
Il professor Merlino ha la capacità di costruire un
archetipo attraverso i suoi personaggi. In tutte le storie che lui racconta c’è
un filo conduttore che ci riporta a come deve essere l’essere umano. C’è quasi
una sorta di ammirazione in queste storie, anche in storie che non sono tutte
nobili. Il professor Merlino riesce
comunque a metter dentro del colore.
Una pagina molto bella è la storia
del libro di Nietzsche che un soldato riceve dalla mani di un compagno morente
e attraverso questo libro lui riesce a ricostruire tutto un processo educativo,
evolutivo, culturale e formativo, compreso l’imparare il tedesco per leggere il
libro nella lingua originale.
C’è un altro personaggio che
è molto particolare, Ugo, che perde il fratello in guerra, durante la campagna
d’Africa, e lui è intriso d’odio: in questo racconto lui passeggia sulle rive
del fiume Po e incontra un antifascista che cerca di inculcargli in testa una
serie di tematiche. Lui si abbeve perché è intriso d’odio, ha una sorta di
rancore nei confronti del fascismo che gli ha sacrificato il fratello. Poi però
ad un certo punto si rende conto che è un burattino che viene manovrato, che
non gli basta il suo odio per essere un anti-italiano, ci vuole
dell’altro, e quindi c’è sempre questa
linea di confine che non viene mai valicata, dove l’essere umano non precipita
mai fino in fondo, ma c’è sempre quell’ancora di salvezza alla quale ci si può
attaccare, c’è sempre quello spiraglio di luce, appunto “faccia al sole e in culo
al mondo” che può sintetizzare i racconti del professor Merlino.
C’è questa
libertà, questo libero arbitrio in tutti i personaggi di Merlino, dove ciascuno
di loro, a modo proprio affronta la vita ma sempre verso l’archetipo e mai
nello stereotipo.
I racconti di Mario Merlino nascono dalla sua fantasia, ma sempre strettamente collegati alle
vicende storiche, e sempre prendendo spunto da un episodio o uno spezzone di
vita, di quello che poi diventerà il protagonista dei suoi racconti.
In uno di questi racconti c’è il piccolo Badoglio, e si parla dello sbarco di
Anzio e di coloro che hanno tentato di difendere questo territorio da quella
che era un’invasione tanto che vogliamo chiamare uno sbarco di liberazione.
Roberta ricordava un altro racconto dove si parla di un certo
Ugo. Ugo è stato per Merlino una figura estremamente importante, Ugo Franzolin di
origine padovana, poi trasferitosi in provincia di Mantova in pianura Padana. In
parte il racconto ripercorre le tappe della sua vita, il legame con la morte
del fratello in Africa nel ’36, l’aspetto successivo dell’odio, la
metabolizzazione dell’odio, il superamento dell’odio. Ugo è stato
corrispondente di guerra della X^ Mas e tornato a Viadana fu avvicinato dai
partigiani che lo invitarono ad abbandonare il suo paese ed egli venne a vivere a
Roma, dove divenne giornalista prima al Meridiano d’Italia poi al Secolo ed
infine scrittore. Molti di noi si sono nutriti della sua scrittura e della sua
eleganza, del modo garbato di come affrontava e ricordava gli avvenimenti
storici. In una
occasione Ugo disse questo a Mario Merlino: "vede professore, crede veramente che con il
nostro anacronistico fucile modello 91 potevamo sperare di fermare la 5° e l’8°
armata?". Ovviamente no. Anche se allora in modo confuso avvertivamo che dietro
la potenza di fuoco degli Alleati stava avanzando qualcosa che avrebbe
distrutto la nostra civiltà, avrebbe dissolto i parametri sui quali per secoli
la civiltà europea si è retta. Un’intuizione profonda, un’intuizione veritiera,
ecco perché abbiamo il diritto, non solo il dovere, di affermare e di chiederci
se fu questo, qui ad Anzio e non solo, una liberazione o una occupazione, una
dissoluzione della cultura europea.
Nel suo piccolo come insegnante, il professor Merlino, avendo
trascorso gli ultimi vent’anni nello stesso istituto, quindi avendo una sorta
di osservatorio specifico, ha visto lentamente, ma inevitabilmente decrescere
la qualità di comprensione e la qualità di possesso della nostra lingua. E un
popolo senza la dignità della propria lingua è un popolo che è schiavo di un
mondo senza sapore e valore. Ecco perché ricordare, riportare delle storie pur
con l’autonomia dello scrittore, è importante perché noi siamo felicemente
orfani di Illuminismo e Marxismo, pur prendendo tanto come riflessione sulla
possibilità della ragione di conoscere le cose del mondo o di guardare
all’economia non soltanto nell’apparenza di un impatto quotidiano. Ma non siamo
vittime dell’ideologia. Diceva Giulio Cesare: <<non attendere la mattina
dopo per stabilire se hai ben vissuto, ma a sera, chiuso nella tua tenda,
prendi la tavoletta, prendi lo stilo e scrivi se hai ben condotto la tua
vita>>.
Nell’ultimo romanzo di Merlino, “La guerra è finita”, i
personaggi sono due ragazzi che sono andati ad arruolarsi dopo l’8 settembre
nella X^ Mas ripercorrendo le loro vicende ormai anziani, diranno <<Possiamo
pensare che la guerra è finita, possiamo pensare che abbiamo perso la guerra ma
certamente abbiamo condotto la bella battaglia>>. Allora quando ci
guardiamo allo specchio, quando siamo chiusi nella nostra stanza, quando usiamo
il computer o la penna con un foglio di carta, se vogliamo stabilire in qualche
modo, correttamente, senza giustificazione, come abbiamo condotto la nostra
vita, che cosa abbiamo di più significante se non la testimonianza, se non la
vita di coloro, magari umilissimi, i quali ci hanno insegnato che si poteva
essere grandi.
C’è uno sforzo tra di noi, nel nostro paese, di apprezzare con
gesto un pò servile le cose che provengono dall’estero e di essere abbastanza
dispregiativi nei confronti del nostro mondo, del nostro popolo, della nostra
realtà. Noi che pensiamo che l’8 settembre sia stata una disgrazia nazionale e
pensiamo che sia stata una vergogna, che pensiamo che non sia stato un
armistizio ma una resa, che dobbiamo vergognarci se nel trattato di pace
firmato il 10 febbraio del 1947 c’è l’articolo 16 in cui si dice che lo Stato
italiano non potrà perseguire tutti coloro che hanno tradito lo Stato italiano
per mettersi al servizio degli Alleati fin dal 10 giugno del 1940, abbiamo
certamente le ragioni di guardare con un senso di disagio quello che è
accaduto, ma è anche vero che questo popolo ha espresso ed esprime nelle sue
individualità, dove le individualità sono spesso individualità numerose se non
di massa, ben qualcosa.
Nel libro IX dell’Eneide, Roberta parlava dell’archetipo,
Enea è sbarcato sulla costa italica e si scontra con alcune delle tribù dei
latini che sono sparse sul territorio; ad un certo punto uno di questi
guerrieri italici descrive e racconta chi sono gli italici, chi sono in teoria
i nostri progenitori. “Durum a stirpe genus”, gente fiera per razza, portiamo i
bambini appena nati al fiume perché possano essere temprati col gelo delle
acque.
Quest’anno sono 100 anni dallo scoppio della Prima
Guerra Mondiale, il prossimo anno per quanto riguarda l’Italia, di cui si è
sempre parlato del grande volontariato della Prima Guerra Mondiale, di quei
ragazzi del 1899, che quindi avevano 17-18 anni, che fermarono l’avanzata
austro-tedesca sul Piave, dopo la rotta di Caporetto. Ma non ricordiamo, non
vogliamo ricordare, il volontariato sorgivo che si è avuto durante la Seconda
Guerra Mondiale, prima e dopo l’8 settembre: come raccontava un altro corrispondente di guerra,
Francesco Accolla, un gentiluomo palermitano <<noi andammo senza alcuna
certezza di vittoria e con poche speranze, perché è facile salire sul carro dei
vincitori è molto difficile saper perdere con dignità una guerra>>. E
allora le testimonianze che ha raccolto il professor Merlino hanno proprio questa funzione,
dimostrare che ci sono stati uomini e donne che sono stati degni di aver
portato una fede, un’idea, una lotta e la propria identità nazionale. E questi
esempi, queste testimonianze, pur in un contesto storico tanto diverso qual è
il nostro, rimangono per noi un segno fondamentale di vita, uno spartiacque per
stabilire appunto se abbiamo ben condotto o meno la nostra vita quotidiana, se
siamo partecipi o meno della bella battaglia.
Nel 1925 Thomas Stearns Eliot pubblica un volumetto i
poesie, un piccolo poema, “Gli uomini di paglia”, per denunciare poeticamente
la condizione dell’uomo moderno dopo la Prima Guerra Mondiale, il quale ha
perso il proprio senso dell’esistenza, e conclude dicendo che anche nella morte
l’uomo ormai non muore con uno schianto ma con una lamentazione. Eliot aveva
potuto pubblicare la sua prima raccolta di poesie (Eliot è uno dei grandi poeti
del ‘900 di lingua inglese, se non il più grande) “Terra desolata” perché Ezra
Pound aveva voluto aiutarlo e aveva fatto le dovute correzioni tanto che Eliot
pubblica il libro con le correzioni di Pound. Eliot ne portava la memoria e
l’importanza di questo accadimento tanto che chiamava Pound “il maggior
fabbro”, mentre Pound chiamava scherzosamente Eliot “il possum”. Vent’anni dopo, nel maggio 1945, a Coltano, campo di prigionia dove vi
erano oltre 30.000 fascisti o presunti tali incarcerati, sebbene Pound è chiuso
dentro una gabbia con la luce sempre accesa, qualcuno dei
suoi guardiani “piscia” dentro la gabbia per annaffiarlo. Pound nobilita ed
eleva se stesso oltre la dramma nella drammaticità della sua condizione
quotidiana iniziando quei canti, i cosiddetti “canti pisani” che varranno uno
dei premi più prestigiosi della cultura americana, anche se poi verrà revocato
per la sua posizione. Pound nel primo di questi canti, dopo aver ricordato Ben
e Clara appesi per i calcagni a Milano,
ad un certo punto dice: <<E dite questo al possum, uno schianto,
non una lagna, per costruire la città di Dio che ha terrazze color delle stelle>>.
Dopo venti anni li ricorda e ricorda ad Eliot che non tutti sono morti con una
lamentazione.
Nella vita di ciascuno di noi ci sono delle date, dei
momenti che diventano più significanti di altri. Spesso nella nostra
giovinezza, dove ci andiamo formando e quindi le esperienze diventano delle
ferite che ci portiamo addosso. Merlino ricorda il 1960, aveva 16 anni: tre
episodi sono stati per lui significativi: uno di questi è il fatto che ha iniziato a costruirsi una piccola biblioteca personale, da studente, risparmiando sui soldi del biglietto dell’autobus, studiando in un liceo al
centro di Roma, si recava a piazza Fontanella Borghese dove c’erano i banchi di
libri e andava cercando qualcosa che fosse, forse un pò nell’ingenuità e nella
rozzezza dell’età, ma che gli desse un sapore diverso da quello che i suoi professori gli inculcavano al liceo e che gli appariva non soddisfacente, non
gratificante il suo bisogno di trasformare le scapole in ali per poter prendere
il volo.
Tre libri sono stati per Merlino l’inizio della sua avventura intellettuale
fino a farlo diventare scrittore: “E così parlò Zarathustra” di Nietzsche, il primo
racconto di questa raccolta di poesie, lo ricordava Roberta, è stato un
reincontro di un vecchio professore universitario che gli raccontava come aveva
imparato il tedesco, come aveva letto Nietzsche e come per tutta la vita era
rimasto fedele a quel tipo di lettura, quel tipo di filosofia pur poi
modificando tante cose della sua vita, era uno dei massimi dirigenti del
Partito Comunista de L’Aquila. Il secondo libro era “I proscritti” di Ernst von
Salomon, libro pubblicato in Italia solo nella primavera del 1943 pochi mesi
prima della caduta del Fascismo per volontà di Giaime Pintor, un giovane intellettuale che poi, diventato
antifascista, morirà nel tentativo di rientrare oltre le linee e arruolarsi in
qualche brigata partigiana, su un campo minato. Su Giaime Pintor sono state dette molte cose e
oggi conosciamo molto bene anche dei dati non necessariamente splendidi della
sua figura. “I proscritti” è la vicenda di coloro che nella
Repubblica di Weimar sognavano un’altra Germania. Il terzo volume a cui
Merlino tiene far riferimento si intitolava, allora in una piccola edizione
semi-clandestina con cui questi fogli ormai ingialliti che si andavano
scollando, “Hanno fucilato un poeta”: erano le poesie dal carcere di Robert
Brasillach, un poeta francese. Robert Brasillach, fucilato
il 6 febbraio 1945 con la scusa di collaborazionismo, in un processo
durato 3-4 ore, un processo ovviamente farsa, ridicolo, come spesso sono i
processi, soprattutto i processi ideologici e politici, di cui questo paese ha
avuto storia anche negli anni ’70. Robert Brasillach, pochi
giorni prima di essere fucilato concludeva un piccolo volumetto dal titolo
“Lettera ad un soldato della classe 40” e si concludeva, rivolgendosi ad un
ipotetico giovane che quando avrà 20 anni sarà soldato <<e ti chiedo di
conservare le due sole virtù alle quali oggi il mio cuore tiene, la fierezza e
la speranza>>.
Il professor Merlino crede che anche queste iniziative dell'Associazione Sleipnir rappresentino un tentativo di
trasformare la fierezza e la speranza non soltanto in parole, ma in dura
capacità di vivere. E allora la sua presenza e la presenza di altri che
verranno e soprattutto la presenza del pubblico è il segno che quel giovane poeta
fucilato a 35 anni, un poeta di grande delicatezza, di grande sensibilità umana,
in uno dei suoi romanzi “La ruota del tempo” nel secondo capitolo “La notte di
Toledo” troviamo le più belle pagine di come un giovane e una giovane possano
scoprire la sessualità senza mai cadere nella utopia dei fiori e delle api, dei
fiorellini e del miele, ma neanche nella volgarità che è sempre molto facile
utilizzare, un equilibrio straordinariamente felice e affascinante.
E
allora scrivere queste storie è anche ricordare quando nella notte del 5
febbraio Robert Brasillach ha saputo che il giorno dopo sarà legato al palo dei
condannati a morte e fucilato, è incatenato, è avvolto da 7 kg di catene, e
preparandosi a morire scrive gli ultimi suoi versi: la scrittura è stata per
lui un dono fecondo e ben giovanile, aveva infatti 14 anni quando pubblica le
prime raccolte di poesie. Casualmente il destino è spesso un pò come una ruota
che porta indietro, l’eterno ritorno avrebbe detto il filosofo Nietzsche, Brasillach
viene fucilato il 6 febbraio. Undici anni prima, nel 1934, i giovani
nazionalisti che poi sarebbero diventati fascisti, e i giovani comunisti,
avevano tentato di assaltare il palazzo borbone sede del Parlamento travolto
dalla corruzione; la polizia aveva sparato e ne aveva uccisi una 15na e
Brasillach, che allora non era impegnato politicamente, era uscito dal teatro
dove era andato a vedere una commedia, vedendo quel sangue che veniva lavato
dalla pioggia di febbraio capisce che deve prendere un posto, deve avere un suo
ruolo e una sua dignità da portare anche davanti a un plotone d’esecuzione.
Egli avrebbe potuto fuggire, avrebbe potuto trovare rifugio in Svizzera, ma ai
giudici dice <<non sono fuggito perché voglio lasciare a coloro che mi
amano un’immagine degna di me>>. Non credo che molti possano dire la
medesima cosa, è anche umanamente comprensibile. Nei suoi ultimi versi egli
ricorda proprio quei giovani camerati caduti nel febbraio del ’34. Le ultime
fucilate continuano a lampeggiare nel giorno indistinto in cui sono caduti i
nostri. Era
doveroso ricordare quegli uomini e quelle
donne, e anche il personaggio del racconto, il piccolo Badoglio, che era nato ad Aprilia, e che, giovanissimo, era andato a combattere nella
divisione Hermann Goering che si trovava a riposo nell’entroterra di Anzio e
Nettuno, e fu la prima linea di resistenza allo sbarco anglo-alleati.
Ecco ciò che ci hanno insegnato, ecco quello che questo
libro vuole essere e modestamente e affettuosamente Roberta l’ha definito il miglior libro del professor Merlino.
Merlino ricorda, di aver visto, da bambino ad
un cinema all’aperto un vecchio film in bianco e nero “Il Cyrano di Bergerac”,
e ricorda che la vicenda del
cavaliere dal grande naso e dal grande cuore lo commuoveva tanto. Quando Cyrano sta per morire dov’è andato a
trovare la cugina Rossana di cui lui è stato sempre innamorato ma non ha avuto
il coraggio di dirle il proprio amore perché si sentiva buffo e deforme per
questo grande naso, e solo allora lo confida, racconta di questo amore nascosto
appoggiandosi a un albero, sguainando la spada prima che la morte traditrice,
perché gli hanno tirato un masso da una finestra, dice <<E’ inutile, si
lo so, ma non ci si batte nella speranza del successo, molte volte è meglio
battersi pur sapendo di essere sconfitto>>.
Merlino racconta di sconfitti che furono grandi, di sconfitti che
furono dignitosi e in nome di quella fierezza e di quella speranza che
Brasillach ha lasciato a ciascuno di noi e guardando il mondo che ci circonda
io credo che gli sconfitti siano gli altri e non siamo noi.
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